Storie di persiane chiuse: il fenomeno degli Hikikomori

Ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini,
a trovarsi isolati per motivi giusti,
sopportare il disagio che ne deriva,
a trovare la linea giusta per mantenere posizioni
che non sono condivise dai più”.
(Italo Calvino)

 

Qualcuno di voi avrà sentito parlare di Hikikomori, ragazzi (per il 90% maschi tra i 19 e i 27 anni) che si chiudono letteralmente nelle proprie stanze per mesi o anni, senza uscire, senza contatti, neppure con i familiari. Restano lì, nella cameretta, facendosi passare il cibo dalla porta.

Il fenomeno nasce in Giappone negli anni ’80, ma viene riconosciuto come reale problema sociale solo qualche anno fa; molti esperti legano il comportamento non ad una patologia, ma alla scelta consapevole di non sottostare alle leggi della pressione sociale e del conformismo, accentuate nella ipersviluppata società nipponica; la condizione sembra legata soprattutto al rifiuto deciso della richiesta sociale di adesione ad un’idea performante di mascolinità. Gli hikikomori sono, per definizione, i “ritirati”.

Detta così, fa quasi sentire parte di una grande ribellione (con tanto di definizione di gruppo e quel “non so che” di esotico) a cui viene voglia di unirsi… ma ci sono dei “ma”.

In primo luogo, spesso vengono invertiti i ritmi di sonno-veglia, portando ad un cambiamento a livello di tutto l’organismo: modifiche ormonali e metaboliche con conseguenti alterazioni dell’umore, del sistema immunitario, difficoltà di concentrazione e irritabilità.

In secondo luogo, è frequente che si soffra di fobie (soprattutto sul versante sociale), depressione, disturbi ossessivi-compulsivi, comportamenti violenti fino ad arrivare alla perdita di realtà con pensieri persecutori.

Ultimo, non meno importante, l’auto-reclusione implica necessariamente dipendere totalmente da altri, di solito proprio gli “altri” a cui gli hikikomori danno la colpa del proprio malessere (i genitori).

Si può parlare di “scelta” in un quadro di tale sofferenza? Il dibattito è ancora molto acceso: tra chi dice che si tratta di un disturbo che rientra in categorie già esistenti, chi dice che servono categorie distinte per il fenomeno in Giappone, ma non nel resto del mondo (ogni nazione dipinge il quadro in modo diverso), chi pensa che vadano distinte delle forme e chi non lo considera proprio un disturbo… insomma, la confusione è alta.

Non so se davvero qualcuno sia riuscito a trovare una dimensione di equilibrio, benessere ed indipendenza restando, non uscendo, nella condizione di hikikomori (testimoni eventuali fatevi avanti!), ma quando si inizia ad avvertire i vari “ma” prima elencati, è bene superare qualsiasi vergogna ed orgoglio e chiedere un aiuto senza timore.

Negli ultimi anni, gli hikikomori hanno iniziato a destare interesse anche in Italia, data la diffusione del fenomeno a migliaia di casi.

Sfatiamo un mito: molti cercano la causa dell’isolamento dei ragazzi in un uso eccessivo della rete, ma gli studi vanno nella direzione opposta. La dipendenza da internet può coesistere con l’isolamento sociale e quando è presente, arriva anche ad un uso di 10-12 consecutive al giorno, persiane chiuse per guardare lo schermo e così via. Questa è tuttavia spesso una conseguenza: la causa del fenomeno sembra comunque risiedere nell’impossibilità di far fronte alla pressione sociale (da dove questo arrivi e come si possa stare meglio, varia chiaramente da persona a persona). Quando si percepisce bassa autostima ed il confronto con gli altri diventa insopportabile, internet può allora diventare facilmente un luogo in cui essere eccellenti in un’azione specifica (ad esempio il gaming online) o trovare relazioni in cui misurarsi solo a piccole dosi. Come sempre, quindi, non è lo strumento ad essere il problema.

Per quella che sembra una sindrome di origine sociale, chiudiamo allora con una riflessione di Johan Cruijff, dirigente sportivo, allenatore di calcio e calciatore: “La pressione si deve esercitare sul pallone non sul giocatore”.

Laureata in Psicologia Clinica e Neuropsicologia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata presso la Scuola di Psicoterapia ad Orientamento Sistemico e Socio-Costruzionista di Milano – Centro Panta Rei, è iscritta all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia (n. 15580). È terapeuta EMDR.

 

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Federica Corbetta

Laureata in Psicologia Clinica e Neuropsicologia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata presso la Scuola di Psicoterapia ad Orientamento Sistemico e Socio-Costruzionista di Milano – Centro Panta Rei, è iscritta all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia (n. 15580). È terapeuta EMDR.  

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