Attaccamento e psicoterapia: i 5 obiettivi del terapeuta riletti in chiave sistemica e socio-costruzionista

In questo articolo cercherò di riprendere alcuni obiettivi che John Bowlby, “padre” della teoria dell’attaccamento, indica come essenziali per il lavoro del terapeuta, rileggendoli da una visione più sistemica. I diversi approcci terapeutici che utilizzano la teoria dell’attaccamento come possibile lente o come strategia partono tutti da un presupposto comune: il terapeuta deve porsi come base sicura. E’ Bowlby stesso (1988) che identifica questo come il primo obiettivo del terapeuta. Quest’ultimo avrebbe infatti – secondo l’autore – il compito di fornire il sostegno necessario affinché il paziente (inteso sia come paziente individuale sia come coppia o famiglia) possa esplorare il proprio mondo interiore. Tale lettura potrebbe portare ad un’immagine del terapeuta come unico responsabile della costruzione di una relazione di fiducia: una visione sistemica si propone invece l’obiettivo di creare, insieme al/ai paziente/i una base terapeutica sicura, fondata sulla reciprocità e con una distribuzione più equa dell’idea di potere.

Il secondo e terzo compito del terapeuta definiti da Bowlby, sono volti a sostenere il paziente nel processo di osservazione delle relazioni: dapprima (2° compito) con gli altri e in seguito con il terapeuta stesso (3° compito). Il terapeuta dovrebbe favorire la comprensione delle modalità che il paziente impiega per entrare in relazione con gli altri, considerando le aspettative personali circa le azioni e le emozioni proprie e altrui. L’analisi della relazione terapeutica porta il paziente a riflettere su come interpreta sentimenti e comportamenti del terapeuta allo scopo di favorire una presa di consapevolezza di come percezioni, aspettative e comportamenti, nonché emozioni derivino dai legami di attaccamento. Questi due compiti richiedono quindi una sorta di riflessione metacognitiva sul modo di entrare in relazione con l’altro, cercando di far emergere i presupposti – o pregiudizi – che guidano le azioni. In questi due compiti individuati da Bowlby è vero che il paziente osserva sé stesso nel processo di costruzione dei significati, ma il terapeuta ne rimane ancora fuori. L’osservatore è invece parte integrante e attiva nella costruzione del sistema osservato e proprio il modo che ha di interagire con il sistema modifica il sistema stesso. Il terapeuta deve quindi essere in grado di leggersi all’interno del sistema e comprendere il suo ruolo nella co-costruzione dei significati nel qui ed ora.

Nel quarto compito, il terapeuta secondo Bowlby dovrebbe invitare il paziente a prendere sempre più coscienza di come il suo modo attuale di vedere il mondo e le relazioni sia frutto degli eventi vissuti in infanzia e adolescenza con i propri genitori, allo scopo di arrivare ad una riconciliazione con le figure di attaccamento, comprendendo come i loro comportamenti possano essere stati a loro volta il prodotto della loro infanzia. L’obiettivo, secondo Bowlby, sarebbe quello di identificare “una vera e propria catena causale e con l’aiuto del terapeuta interromperla” (Attili, 2007, p.  368). Il rischio di rimanere all’interno di un modello lineare, deterministico e unicausale è evidente: anche la proposta di “interrompere la catena” potrebbe essere inefficace se lasciata implicitamente sostituire da una costruzione sì alternativa, ma altrettanto lineare. La costruzione di una narrazione ufficiale o dominante, per dirla alla White, è sicuramente un aspetto importante e una strategia che aiuta il paziente a dare senso e forma alla propria storia, ma ciò in taluni casi può portare ad una visione della vita “saturata dal problema” (White & Telfener, 1992, p.35). In ottica socio-costruzionista, il terapeuta accoglie le storie del paziente, ma è anche in grado di costruire insieme a lui/lei/loro più narrazioni alternative, identificando aspetti vitali ma trascurati eppure presenti nella trama.

La costruzione di narrazioni alternative si connette al quinto compito del terapeuta secondo Bowlby, ovvero quello di aiutare il paziente a comprendere che le emozioni e i comportamenti sono guidati dai suoi modelli operativi interni, i quali però possono essere rivisti alla luce delle sue esperienze più recenti, tra cui quella terapeutica allo scopo di sentire e agire in maniera nuova e iniziare ad immaginare modelli di comportamento alternativi. A mio avviso, il terapeuta, per favorire tale processo di cambiamento, non può far altro che mettersi in una particolare posizione concettuale, che è rappresentata dall’altravisione. Caruso (2008) con questo termine intende definire una vera e propria linea guida che permette al terapeuta di mantenersi alla costante ricerca di posizioni altre e di strumenti per ottenere visioni differenti: la costruzione di nuovi punti di vista aumenta le possibilità di soluzione dei problemi e mantiene l’atteggiamento di curiosità del terapeuta. I cinque obiettivi introdotti da Bowlby sono dunque a mio parere condivisibili, considerando però l’attenzione al ruolo del terapeuta all’interno del sistema, in un’ottica socio-costruzionista: lo stesso lavoro metacognitivo che viene richiesto al paziente dovrebbe essere parte anche dell’agire terapeutico, in un processo che più che disvelamento di significati, porta alla loro co-costruzione, in cui essere d’aiuto è diverso da dare aiuto. Quest’ultimo atteggiamento è talvolta molto attraente e spesso richiesto dai pazienti stessi, tanto da prevalere – in alcuni casi – sui modelli terapeutici conosciuti e praticati (Cecchin, Lane e Ray, 1997). E’ utile pensare che anche il sistema di attaccamento del terapeuta ed i suoi modelli operativi interni entrano in gioco nel sistema terapeutico e dunque il focus non sarà più soltanto sui “pregiudizi di attaccamento” del paziente, ma sulla relazione tra i pregiudizi – e quindi tra le storie – di entrambi.

Tale considerazione può aiutare il terapeuta a non diventare né un “terapeuta ferito” (con inevitabili lacerazioni più o meno risanate, legate presumibilmente ad un attaccamento insicuro e l’idea di offrire al paziente lo stesso aiuto ricevuto o desiderato) né un “terapeuta missionario” (con in mente un modello ideale di famiglia, costruito probabilmente all’interno di una relazione di attaccamento sicura, e con l’idea di sapere ciò che è giusto per il paziente).

Laureata in Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Pavia, è Ricercatrice in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata presso la Scuola di Psicoterapia ad Orientamento Sistemico e Socio-Costruzionista di Milano – Centro Panta Rei, è iscritta all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia (n. 16147). È terapeuta EMDR.

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Eleonora Farina

Laureata in Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Pavia, è Ricercatrice in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata presso la Scuola di Psicoterapia ad Orientamento Sistemico e Socio-Costruzionista di Milano – Centro Panta Rei, è iscritta all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia (n. 16147). È terapeuta EMDR.

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